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François-Auguste-René de Chateaubriand: tra romanticismo e istinto di conservazione

    2023-08-04
    Tempo di lettura: 15 min
    È un’essenza atipica e a tratti catacombale quella che permea gli scritti di François Chateaubriand, visconte originario di una famiglia dalle antiche ascendenze aristocratiche a Saint-Malo, celebre e pittoresca città balneare della Bretagna francese, un luogo in cui il gotico medioevale svetta ancora oggi cristallizzando il presente. Qui affonda le radici la malinconia dell’autore, quella stessa traslata nel celebre capolavoro semi- autobiografico René[1] e che fa di Chateaubriand un esponente di rilievo del romanticismo francese.

     

    Nel 1791, dopo alcuni anni trascorsi a Parigi a stretto contatto con Rousseau (di cui fu un discepolo ideale), lo scrittore lasciò la Francia travolta dai tumulti rivoluzionari, gli stessi fomentati idealmente dall’illuminismo.

    Come Alexis de Tocqueville, Chateaubriand trovò nel Nuovo Mondo un terreno fertile e ispiratore. Mentre cercava, come riferito nella prefazione del suo Saggio sulle rivoluzioni, “il passaggio a Nord-Ovest del Canada”[2] il giovane pensatore venne a conoscenza della fuga del monarca Luigi XVI e del suo arresto alla frontiera di Varennes. Un arresto simbolico quanto epocale, che aveva costretto i lealisti monarchici e i principali ufficiali dell’esercito regio a ripiegare al di là della Mosella e del Reno.

    Sconvolto dall’accaduto e profondamente scosso dagli eventi in atto tornò in Francia nel 1792, aderendo agli ultimi eserciti lealisti rimasti per guidare una restaurazione della Monarchia. Una perfetta sublimazione di come, a differenza di altri pensatori controrivoluzionari, Chateaubriand fosse uomo di pensiero ed azione e che, prima di affidare a pergamena e calamaio i suoi tumulti interiori avesse impugnato le armi per difendere le proprie idee e virtù dai tumulti terreni. In età giovanile, François de Chateaubriand è la perfetta esemplificazione di un titanismo di altri tempi.

    Ferito e costretto a lasciare nuovamente il suo paese, il “poeta guerriero” ripiegò in esilio in Inghilterra, a Londra, dove comincerà la produzione scritta di alcuni dei suoi capolavori.

    Nel 1797 darà alle stampe l’Essai historique, politique e moral sur les révolution anciennes e moderne, considérées dans leurs rapports avec la Révolution Française[3] in cui ha il pregio di sviscerare il concetto di Rivoluzione, comparando antichi e moderni ed i rispettivi vizi e virtù. Il saggio si apre con una constatazione lapidaria e pessimistica: “Quando lasciai la Francia ero giovane. Quattro anni di sventure mi hanno invecchiato”[4].

    È con il termine “sventura” quindi che l’autore identifica fin dalle prime battute l’essenza della Rivoluzione Francese, così impetuosa nella decostruzione dei paradigmi e nell’abbattersi su nobili e scellerati.

    L’importanza del Saggio di Chateaubriand sta nella capacità del pensatore bretone di mettere a confronto più tipi di rivoluzione. Egli si chiede quali rivoluzioni si siano verificate nel passato e se possano essere assimilate alla Rivoluzione francese, si interroga sulle cause primitive della deflagrazione di quest’ultima, sul governo attuale e, in caso di caduta, quali possano essere gli effetti corrosivi sugli altri popoli europei.[5]

    Fondamentale comprendere con quale accezione e quale significato Chateaubriand attribuisca al termine “Rivoluzione”, chiave interpretativa del romanticismo conservatore e del pensiero controrivoluzionario di cui è vessillo ed interprete.

    Scrive l’autore:

    «Con la parola rivoluzione intenderò dunque, nel testo che segue, solo una totale conversione del governo di un popolo, sia da monarchico a repubblicano che da repubblicano a monarchico. Così, uno stato che cade per armi straniere, un cambiamento di dinastia, una guerra civile che non abbia prodotto alterazioni degne di nota in una società, un moto parziale di una nazione momentaneamente insorta, per me non sono rivoluzioni. In effetti, se lo spirito dei popoli non cambia, che importa che si siano per qualche istante agitati nella loro miseria, che il loro nome o quello del loro signore sia cambiato?

    Considerate da questo punto di vista, io riconoscerò solo cinque rivoluzioni in tutta l'antichità e sette nell’Europa moderna. Le cinque rivoluzioni antiche saranno: lo stabilirsi delle repubbliche in Grecia; il loro assoggettamento da parte di Filippo e Alessandro, con le conquiste di quegli eroi; la caduta dei re a Roma; il sovvertimento del governo popolare opera dei Cesari; infine, il rovesciamento del loro impero da parte dei barbari.

    La Repubblica di Firenze, quella della Svizzera, i torbidi sotto il re Giovanni, la Lega sotto Enrico IV, l'unione delle province belghe le sventure dell’Inghilterra durante il Regno di Carlo I, l’assurgere degli Stati Uniti d’America a nazione libera costituiranno il tema delle sette rivoluzioni moderne[6].

    Chateaubriand racconta quindi le trasformazioni politiche, sociali e culturali di grandi civiltà, trovando negli uomini dell’antichità maggior virtù ed intelletto rispetto a quelli del presente, pur giudicando simili alcuni effetti dei grandi moti.

    Così il controrivoluzionario Chateaubriand si ritrova a tessere le lodi dei Canti di Tirteo per le grandi vittorie spartane, comparandolo alla forza evocativa del canto della Marsigliese. A proposito di quello che diventerà, ed è ancora oggi l’inno nazionale francese, riferirà:

    L’inno dei Marsigliesi non è privo di meriti. Il lirico ha avuto il grande talento di mettervi entusiasmo. D’altronde quest’ode vivrà perché ha fatto epoca nella nostra rivoluzione. E poi ha condotto tante volte i Francesi alla vittoria che non la si potrà collocare meglio che vicino ai canti del poeta che fece trionfare Lacedemone. Ne trarremo questa triste lezione: che, in tutte le epoche, gli uomini sono stati macchine che le parole hanno indotto a sgozzarsi[7].

    Una constatazione ferma e lapidaria che si configura come prima grande critica alla dialettica della rivoluzione, con il suo canto più rappresentativo che invita i cittadini a resistere contro le coorti di invasori, ma anche contro restauratori dell’ordine precedente, lealisti e monarchici. Un canto di malinconia che racconta un’identità spezzata e un popolo dilaniato da aspri dissidi.

    Al momento di citare l’epitaffio di Marat emerge nuovamente il disprezzo di Chateaubriand nei confronti del martire della rivoluzione, amico del popolo e dell’uguaglianza messianica. L’autore scrive infatti: “Chiedo scusa al lettore se gli ricordo l’idea di un simile mostro, con versi altrettanto miserabili, ma bisogna ricordare lo spirito dei tempi”.[8]

    Ed è in nome dello spirito dei tempi che il poeta tesse le lodi di Eraclito e Rousseau, assimilando a delle distorsioni politiche e culturali le rispettive traduzioni pratiche e rivoluzionarie del pensiero dei due filosofi.

    In modo sorprendente rispetto ad altri controrivoluzionari, nemici antitetici del pensiero di Rousseau, Chateaubriand difende il filosofo dimostrando di essere ancora profondamente influenzato dai suoi insegnamenti e dai circoli illuministi frequentanti durante il soggiorno parigino. Ad influire sulla lenta discesa nel baratro rivoluzionaria, per Chateaubriand furono le età corrotte e le vertigini di libertà, “una febbre contagiosa”, sospinta da una propaganda distruttiva. Una travolgente cancrena spirituale e politica che ha investito costumi e tradizioni.

    Chateaubriand racconta di come i moti rivoluzionari abbiano costretto l’entrata tra le fila dell’esercito di cinici mercenari, amanti del vino e dell’oro. Provenivano dalla Scizia per i Greci e dalla Svizzera per la Francia, entrando a gamba tesa in una crisi epocale e di cui non avevano alcun interesse.

    Chateaubriand li dipinge come alcuni fra gli esempi lampanti della crisi dei costumi che investì Atene e Parigi:

    I due popoli (scizi ed elvetici) combatterono al soldo dei monarchi per dispute diverse da quelle della patria (…) si arricchirono con le sventure altrui e fondarono una banca sulle calamità umane. (…) A Parigi e ad Atene (…) presto non restò più nulla della loro antica virtù spezzata sullo scoglio delle rivoluzioni. Solo la sua tradizione si staglia ancora nella storia, come si scorgono gli alberi di una nave che ha fatto naufragio.[9]

    Nella seconda rivoluzione considerata, quella di Filippo e Alessandro, Chateaubriand effettua un altro brutale parallelismo tra la Francia rivoluzionaria e l’Atene in ginocchio dopo la rivoluzione dei Quattrocento.

    L’autore infatti compara i Trenta Tiranni di Crizia agli uomini e fedelissimi di Marat e dell’abate Joseph Sieyès[10].

    Un parallelismo emblematico poiché la dominazione dei Trenta tiranni ad Atene è la pagina più umiliante per la capitale della filosofia, cultura e pensiero classico, una culla di civiltà piegata sul campo di battaglia dai lacedemoni e nella politica attraverso l’imposizione di una ferrea oligarchia. Con Crizia, facente parte della scuola socratica, coloro che lo circondavano divennero il volto di una città sconfitta e brutalizzata dai vincitori. Una visione che vedrebbe, nella Francia senza corona, l’abate Sieyès e i rivoluzionari di Marat come degli usurpatori della tradizione, della virtù e della Francia di antico regime.

    Come Crizia e le milizie spartane che penetrarono i confini ateniesi aizzando gli uni contro gli altri i cittadini e promuovendo l’esproprio di fortune e risorse, Robespierre diede inizio al suo regno di terrore.

    Scrive Chateaubriand:

    È sempre in questo modo che i congiurati in Francia avevano fatto con i Giacobini, i soli cittadini attivi della repubblica, mentre il resto del popolo, annientato e in preda al terrore, tremava sotto un governo rivoluzionario (…). Crizia diceva, come Marat, che occorreva, per ogni evenienza, far cadere le principali teste della città. Quei mostri arrivarono al punto di scegliere a turno un ricco abitante che condannavano a morte per pagare con la confisca dei suoi beni i satelliti della loro tirannia. E come se tutto, in tale tragedia, dovesse somigliare a quella di Robespierre e della Convenzione in Francia, ai corpi dei cittadini massacrati venivano negati gli onori funebri[11].

    Una critica forte e dirompente alla fittizia intelaiatura egualitaria che la Rivoluzione Francese aveva costruito. Rovesciato il Re scomparve la divisione in stati, ma a dilaniare la Francia saranno gli stessi interpreti del messianismo rivoluzionario. Una Francia che arriva persino a negare libertà e diritti a chi si fosse opposto ai tumulti, avesse rifiutato di unirsi o sostenere il giacobinismo, tutte limitazioni emblematiche di una rivoluzione che ha tradito la sua matrice ideologica, razionale e illuminista.

    Non sorprende, secondo l’autore, che Robespierre perisca sotto i colpi della sua stessa crudeltà, dopo un vile tentativo di suicidio fallito. Ricorda caustico: “Di certo, Robespierre offriva con la sua morte una debole espiazione dei suoi misfatti; ma quando uno scellerato sale al patibolo, allora la pietà considera le sofferenze, non i crimini del colpevole”[12].

    Il clima infernale della Rivoluzione francese culmina con la massiccia e forzata emigrazione di massa dei “nemici della rivoluzione”. Tra questi non solo monarchici e lealisti della corona, ma soprattutto nobili e aristocratici, perseguitati solo per il nome o antiche ascendenze. Comincia così una delle sequenze più intime e biografiche del saggio del pensatore bretone. Nel cuore della notte, svegliati da canti di morte i nobili erano costretti alla fuga, a confondersi nella folla parigina o a lasciare per sempre la propria terra.

    Coloro che non riuscirono a fuggire o che vennero vinti dal disfattismo e dall’incapacità fecero ritorno nei loro manieri in fiamme e lì, riferisce l’autore “furono presi e assassinati; alcuni arrostiti, come al tempo di Re Giovanni, sotto gli occhi dei loro congiunti; diversi videro le spose violate con disumana barbarie”[13].

    Immagini brutali, che l’autore descrive dettagliatamente e minuziosamente, avanzando un interrogativo nei confronti del lettore: come si può pretendere che nobili osteggiati, umiliati, spogliati della propria ricchezza morale e fisica possano chinare il capo e accettare di unirsi al flusso rivoluzionario? Non è solo per sfuggire all’umiliazione che si emigra dalla Francia rivoluzionaria, si emigra soprattutto per allontanarsi dai fantasmi di quell’umiliazione.

    Chateaubriand passa in rassegna anche i responsabili della decadenza morale e culturale della Francia rivoluzionaria. Un passaggio fondamentale, considerato che la sua invettiva si scaglia contro gli Enciclopedisti, non esprimendosi criticamente né su Rousseau né su Montesquieu che incarnarono invero, quella filosofia dei lumi dai conservatori e controrivoluzionari da sempre avversata.

    “Sarebbe impossibile entrare nel dettaglio della filosofia degli Enciclopedisti; sono per lo più già dimenticati, e di loro resta solo la Rivoluzione francese (…). Vediamo solo, da diverse opere di Diderot, che egli ammetteva il puro ateismo, senza fornire che cattive ragioni. Voltaire non capiva niente di metafisica: ride, scrive bei versi e distilla l’immoralità.”[14]

    Agli Enciclopedisti l’autore non perdona l’assoluta mancanza di fede e spiritualità, la volontà messianica e la presunzione di poter categorizzare il sapere, incasellandolo in rigide intelaiature che non rispecchiano la cultura dei suoi autori, ma la sensazionale superbia, una critica spietata allo scientismo più che alla scienza.

    Per Chateaubriand la filosofia ha un ruolo chiave nelle grandi rivoluzioni della storia. In particolare, l’autore afferma come la filosofia porti per natura al cambiamento dei paradigmi, sovvertendoli e portando dalla repubblica alla monarchia e, come nel caso francese, dalla monarchia alla repubblica. Continuando a nutrire dubbi sulla naturale evoluzione democratica dei regimi e delle istituzioni nate al termine di un processo così radicale l’autore sottolinea come l’influenza religiosa dei filosofi sia una chiave interpretativa fondamentale per comprendere le rivoluzioni.

    Sottolinea Chateaubriand:

    È qui che i filosofi della Grecia e quelli della Francia hanno avuto con i loro scritti un’influenza assolutamente identica sulle loro rispettive età. Essi ribaltarono il culto del loro Paese e, introducendo il dubbio e l’ateismo, portarono alle due più grandi rivoluzioni di cui sia rimasta traccia nella storia. Fu l’alterazione delle opinioni religiose a produrre in parte la caduta del colosso romano, alterazione cominciata dalle sette dogmatiche di Atene: ed è lo stesso cambiamento di idee religiose nel popolo ad aver causato ai nostri giorni lo sconvolgimento della Francia e che rinnoverà tra breve la faccia dell’Europa (…)[15].

    Fu questo approccio alla religione e al rovesciamento dei paradigmi spirituali a caratterizzare l’azione intellettuale degli Enciclopedisti. Ancora una volta il tema religioso è per Chateaubriand il vero discrimine tra il bene e il male, la virtù ed i vizi. Rousseau e Montesquieu rifiutarono di far parte di quella che per l’autore è “una setta”[16]e da ciò sarebbe derivato un odio profondo nei loro riguardi da parte di Voltaire, un plauso invece da Renè de Chateaubriand.

    Una “setta” che sotto Luigi XVI intensificò la propria attività, forte dell’appoggio ideale della potenza nemica della Francia, uno spauracchio che è comunemente protagonista nei saggi dei pensatori controrivoluzionari, da Burke allo stesso Chateaubriand: la Prussia di Federico il Grande, che tra militarismo, protestantesimo e opposizione all’imperialismo francese ne diverrà il principale rivale nei successivi due secoli.

    Sebbene emblemi dei lumi, Chateaubriand evita quindi di scagliarsi contro Rousseau e Montesquieu, ispiratori di menti prive di forza e purezza d’animo. Nella sua critica spietata ai protagonisti della rivoluzione, l’autore bretone pone al riparo da feroci critiche Montesquieu e “Jean Jacques” che appella in modo familiare e informale.

    Dalla rivoluzione in poi, ogni fazione ha fatto a pezzi quegli illustri cittadini, i Giacobini Montesquieu, i realisti Jean-Jacques; ciò non impedirà che l’immortale Spirito delle Leggi e il sublime Emilio (…) passino all’ultima posterità. Quanto al Contratto sociale (…) credo che, nel suo attuale stato di imperfezione, abbia fatto poco bene e molto male[17].

    In questa affermazione, oltre alla corruzione del pensiero dei grandi padri dell’illuminismo (che scatena la rivoluzione a causa di una politica incapace di cogliere malumori e trasformazioni in atto) troviamo un conservatore più incline alla celebrazione dell’epica piuttosto che del contrattualismo di Rousseau, vera e comune antitesi di ogni controrivoluzionario con Chateaubriand che non fa eccezione.

    Emerge inoltre chiaramente, dal suo saggio più celebre e dalla spiritualità di cui sono permeate l’Atala e Renè, che per Chateaubriand la fede e la religione siano temi centrali. La sua minuziosa analisi delle colpe (degli abati rivoluzionari in primis) e delle virtù del clero francese in relazione alla rivoluzione rendono l’autore un osservatore dei tumulti in atto acuto quanto Edmund Burke, se non più fatalista. Nell’Atala, imprescindibile per capire il rapporto fra il nobile e la Rivoluzione, Chateaubriand ricorre a tre personaggi per innervare la sua narrazione sulla vita e la morte, la dissoluzione e l’abbandono. La donna protagonista incarna “le contraddizioni del cuore umano”, Chactas suo amante, è un “Selvaggio che si suppone dotato di genio” poiché seppur lontano dai lumi è capace di coniugare gli echi del nuovo mondo a quelli di un mondo, quello europeo, in decadimento e dissoluzione. Il missionario non è uomo di fama ma “un semplice cristiano” poiché per l’autore la riscoperta della fede è l’unico antidoto ai mali del presente. Nel presentare padre Aubry l’autore ricorre al suo tagliente sarcasmo, scrivendo “(…) è un prete nella sua autenticità. So che è difficile rappresentare un simile personaggio agli occhi di certa gente senza cadere nel ridicolo. Se non riesco a commuovere, farò ridere: starà ai lettori giudicare”.[18]

    La riscoperta della fede, in un modo spogliato da valori antichi è per l’autore il filo conduttore dell’opera, reso in modo emblematico dall’utilizzo frequente del termine “miracolo” per identificare l’abbraccio della fede.

    Scrive Chateaubriand in una delle sequenze narrative più importanti della sua novella: “Chi poteva salvare Atala? Chi poteva impedirle di soggiacere alla natura? Nient’altro che un miracolo, certo; e il miracolo fu. La figlia di Simagan ricorse al Dio dei cristiani; si buttò in terra, e pronunciò una fervida pregheria a sua madre e alla regina delle vergini. Da quel momento, René, concepii una meravigliosa idea di quella religione che, nelle foreste, fra tutte le privazioni della vita, può colmare di doni gli infelici (…)[19].

    Attraverso il mito “del buon selvaggio”, Chateaubriand presenta quindi l’incontro fra l’europeo e il nuovo mondo con una chiave di lettura innovativa. Se l’Europa dei lumi è stata corrotta, l’uomo primordiale mite e pacifico non è ancora stato contagiato dalla spinta febbrile per il progresso. Ancor prima della volontà civilizzatrice, per l’autore emerge la fede, unico baluardo verso le passioni e le pulsioni distruttrici che animano le società rivoluzionarie. Esotismo e rinascita spirituale contro le violenze delle masse rendono Chateaubriand una personalità di spicco tra i grandi controrivoluzionari, ma soprattutto il precursore del primo, malinconico ed emotivamente turbolento, filone del romanticismo francese.

    Con il crollo delle certezze derivate dalla Rivoluzione francese e, nel caso in cui questa si espanda e incancrenisca anche negli altri Paesi e monarchie europee quale futuro attende gli uomini?

    Nelle riflessioni conclusive del Saggio sulle Rivoluzioni Chateaubriand prova a disegnare due strade per il destino degli uomini: “(…) o le nazioni, dopo aver accumulato quantità enormi di lumi, diverranno tutte illuminate, e si uniranno sotto uno stesso governo, in uno stato di inalterabile felicità; oppure, dilaniate al proprio interno da rivoluzioni parziali, dopo lunghe guerre civili e una tremenda anarchia torneranno una dopo l’altra alla barbarie. Durante quei disordini, alcune di esse, meno avanzate nella corruzione e nei lumi, si leveranno sulle macerie delle prime, per divenire a loro volta preda dei loro dissensi e dei loro cattivi costumi: allora le prime nazioni cadute nella barbarie ne emergeranno di nuovo, e riprenderanno il loro posto sulla faccia della terra; e così via in una rivoluzione senza fine”[20].

    È un baratro vizioso e senza fine quello che Chateaubriand prefigura per l’uomo occidentale al termine delle sue riflessioni.

    A questo capolavoro che si compone di storia, cultura classica, filosofia politica e spiritualità seguiranno altre opere fondamentali per comprendere il travagliato viaggio interiore dell’autore dall’Antico Regime alla Francia napoleonica.

    Genio del Cristianesimo, datato 1802, è divenuto il manifesto dello spirito del pensatore bretone, un saggio in cui l’autore traccia il percorso evolutivo della religione cattolica e della fede, dal politeismo all’unico Dio, rivendicando le radici cristiane dell’Europa occidentale e confutando perfino alcune affermazioni contenute nel Saggio sulle Rivoluzioni, tra cui una critica troppo marcata ai vizi del clero.

    Chateaubriand arriverà ad affermare che “quando i barbari, piombati sull’Impero, avranno spezzato tutti i legami sociali, agli uomini resterà solo Dio come speranza”[21].

    La stessa speranza che, in connubio con l’istinto di conservazione, porteranno l’autore a schierarsi politicamente e ideologicamente per tutta la vita al fianco del fronte controrivoluzionario e conservatore.

    Direttore del giornale “Le Conservateur” fu il primo uomo ad utilizzare questo termine[22], quando nel 1818 identificò come “Conservatore” colui che, nel pieno della Restaurazione, sosteneva l’importanza e il primato della religione, corona monarchica, e della libertà.

    Un progetto ideale che divenne politico, con la militanza prima tra gli “Ultrarealisti”[23] per poi confluire tra i Legittimisti[24] monarchici e conservatori.

    Quella di Chateaubriand è una libertà priva di pericolose illusioni liberalistiche, tendenti al dispotismo ed ai diktat della massa. Una libertà, quella riaffermata dal pensatore francese, che sfiora persino l’anarchia intellettuale dopo un sofferto e malinconico processo di maturazione e autodeterminazione spirituale.

    Da uomo colto qual era, nell’epilogo[25] del Saggio sulle Rivoluzioni egli provoca gli ideologi della Rivoluzione, incensando in modo ilare la libertà utopistica e celeste a cui aspirano, la stessa che seppellisce nel sangue qualsiasi opposizione e che fa della ghigliottina il suo primo e inalienabile diritto.

    A quella libertà Chateaubriand preferisce una notte tra gli indigeni del Nuovo Mondo, tra i “selvaggi d’America”, scevri di qualsiasi ipocrisia messianica.

    Oggi questo autore fatalista, elegante, provocatore, amato dai suoi discepoli e rispettato dai suoi avversari politici riposa sulla rocca di Gran Bé a Saint-Malo, nel silenzio di un monumentale affaccio sul mare, con le radici ben salde nell’amata Francia, oggi come allora in una fase politicamente e culturalmente molto delicata, e lo sguardo spiritualmente alto, rivolto sempre verso nuovi e limpidi orizzonti.

     

     

    [1] F. Chateaubriand, Atala-René, Se Edizioni, Milano 2003.

    [2] F. Chateaubriand, Saggio sulle rivoluzioni, Medusa, Milano 2006, pp. 16-17.

    [3] Ripubblicato in italiano come Saggio sulle rivoluzioni, Medusa, cit.

    [4] Ivi, p. 46.

    [5] Ivi, p. 57.

    [6] Ivi, p. 60.

    [7] Ivi, pp 105-107.

    [8] Ivi, p. 110.

    [9] Ivi, p. 160.

    [10] Ivi, p. 226.

    [11] Ivi, pp. 226-227.

    [12] Ivi, p. 230.

    [13] Ivi, p. 234.

    [14] Ivi, pp. 276-277.

    [15] Ivi, p. 290.

    [16] Ivi, p. 304.

    [17] Ivi, p. 305.

    [18] F. Chateaubriand, Atala-René, Se Edizioni, cit. p. 15.

    [19] Ivi, p. 39.

    [20] F. Chateaubriand, Saggio sulle rivoluzioni, cit., p. 324.

    [21] Ivi, Appendice, p. 341, estratto da F. Chateaubriand, Genio Del Cristianesimo, Einaudi Editore, Torino 2014.

    [22] F. Giubilei, Storia del pensiero conservatore, cit., pp. 309-311.

    [23] Dal 1814 al 1830 gli ultrarealisti rappresentarono l’insieme di partiti monarchici e reazionari che propugnavano un radicale ritorno all’assolutismo. Con i notabili confluiti nel progetto più moderato dei Legittimisti il gruppo si sciolse. Attualmente si riconducono a queste sfumature politiche gruppi identitari e reazionari, spesso fuori dall’alveo costituzionale francese.

    [24] Con il termine ci si riferisce ad una dottrina ideale e politica monarchica e conservatrice ma in antitesi all’orleanismo che nacque durante la Restaurazione del Congresso di Vienna. Nel corso di questo evento di eccezionale importanza, in cui si disegnò il nuovo ordine mondiale e scacchiere geopolitico, Metternich insistette per invitare anche gli sconfitti, sottolineando la necessità di un ritorno all’assolutismo monarchico e coinvolgendo la Francia tra le grandi potenze per evitare pericolosi revanscismi. A posteriori una prova eccezionale di diplomazia e conoscenza degli “avversari”. Sarà il mancato invito a Versailles della Germania sconfitta nel 1918 ad innescare la spirale di crisi e il baratro in cui verrà inghiottita l’Europa negli anni ’20, preludio della catastrofe bellica del 1939-45.

    [25] F. Chateaubriand, Saggio sulle rivoluzioni, cit., p. 332.

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